sabato 15 ottobre 2022

Dino Martens - Franco Deboni

Dino Martens - Pittore e designer del Vetro artistico. Testi di Franco Deboni. Dino Martens nasce a Venezia nel 1894 da una famiglia di origine olandese. Si ebbero contatti tra la Repubblica di Venezia e l'Olanda dalla fine del Cinquecento in poi a seguito dell'alleanza commerciale instauratasi tra i due paesi a Costantinopoli, e di altri legami culturali, come il lungo soggiorno a Venezia intorno al 1620 di Costantino Huygens, il primo studioso di Rembrandt. Martens studiò pittura con Ettore Tito e Umberto Martina all'Accademia di Belle Arti di Venezia e iniziò ad esporre in giovane età, prima all'Umanitaria di Milano nel 1911, poi alla Permanente di Torino l'anno successivo. Nel 1913, non ancora ventenne, ebbe il suo primo grande successo nella propria città, all'Esposizione d'Arte raccolta a Palazzo Pesaro, esponendo due dipinti ad olio: Tra i cenciosi e A San Geremia, assieme ad artisti del calibro di Felice Casorati, Arturo Martini, Napoleone Martinuzzi, Teodoro Wolf Ferrari e Vittorio Zecchin. Fu probabilmente qui che venne a conoscenza delle nuove tendenze dell'arte vetraria, perché i Barovier esponevano anche dodici pezzi in vetro di nuova concezione che furono una vera pietra miliare in quello che può essere considerato il Rinascimento del vetro di Murano. Nel 1914 accadde uno strano avvenimento: gli fu chiesto di decorare i carri allegorici per il carnevale e il quotidiano di Venezia il Gazzettino pubblicò una deliziosa caricatura di lui come ragazzo-pittore. Prestò servizio nella prima guerra mondiale e al suo ritorno riprese la carriera pittorica, che raggiunse l'apice tra il 1920 e il 1930 con opere accolte nelle Biennali di Venezia e nelle mostre dell'Opera Bevilacqua La Masa. Alla XIV Biennale di Venezia del 1924, espone Vecchio Pescatore un dipinto che appartiene alla corrente del Realismo Magico di cui Antonio Donghi, Felice Casorati e, in particolare, Cagnaccio di San Pietro furono esponenti di spicco.
La prima esperienza professionale con il vetro di Martens risale probabilmente al 1926. Diviene per breve tempo membro del SALIR (Studio Ars Labor Industrie Riunite), fondato tre anni prima da Giuseppe d'Alpaos, Decio Toso e Guglielmo Barbini, specializzato in "freddo" processi di decorazione del vetro, cioè smaltatura e incisione. Durante il suo sodalizio con questa azienda, ebbe un ruolo diretto nel processo produttivo, disegnando oggetti da decorare con smalti e incisioni a ruota. Di questi lavori purtroppo non rimangono fotografie, sebbene esista una grande coppa con decorazione a smalto di soggetto campestre. L'archivio SALIR conserva anche un disegno preparatorio per una coppa di vetro trasparente e incolore decorata con giocatori di bocce, sport molto amato da Martens e dai suoi amici e colleghi di altre vetrerie. Il disegno è depositato con il numero 707, ma senza ulteriori informazioni. Nello stesso anno sposò Amelia Toso e presentò il dipinto Giovane sposa, presumibilmente un ritratto della giovane moglie, alla XV Biennale di Venezia, nel cui comitato di selezione c'era anche lo scultore Napoleone Martinuzzi. Seguì nel 1928, alla XVI Biennale, con Giocatori di bocce, soggetto a lui particolarmente caro e già presente sul suddetto vaso disegnato per SALIR. Il dipinto fu acquistato dal barone Treves de' Bonfili per l'allora ragguardevole somma di 20.000 lire. La sua attività di pittore si amplia ulteriormente con una mostra personale a Napoli nel 1929, dove la stampa locale lo descrive come "un giovane artista del Novecento veneziano di grande talento". Continuò ad esporre con successo a Venezia, dove espose un grande dipinto intitolato I Costruttori alla XVII Biennale del 1930. Questa fu considerata una delle migliori opere in mostra e fu infine acquistata dal Credito Marittimo di Roma. Le prime imprese con il vetro di Martens furono esposte alla XVIII Biennale del 1932. Il suo amico Aureliano Toso aveva recentemente lasciato l'azienda F.lli Toso per entrare a far parte della vetreria Successori Andrea Rioda e gli chiese di disegnare alcuni pezzi in vetro che furono presentati con notevole successo, anche se ci furono alcune riserve riguardo all'uso rivoluzionario delle tecniche tradizionali. Espone nella stessa Biennale alcuni pezzi disegnati per Salviati, utilizzando materiali più semplici, ma forme più estreme, con sinuosità e asimmetrie che danno un'idea della direzione futura del suo lavoro di designer del vetro. Era presente anche nella sezione mosaici con la tavola I Pescatori di San Pietro, realizzata su suo cartone dalla Cooperativa Mosaicisti Veneziani e acquistata dall'Associazione della Pesca di Ancona. A questo punto della sua vita sembrerebbe un artista di successo, sostenuto da positivi riconoscimenti di critica e pubblico, ma il suo temperamento irrequieto lo rende incapace di stabilirsi su una linea artistica costante. "Era indeciso tra un realismo freddo, nordico, ma anche quattrocentesco, ma contemporaneamente (e apparentemente contraddittorio) alla ricerca di esperienze che potremmo definire impressionistiche, sulla scia di quello che stavano facendo altri artisti, suoi amici e contemporanei". Così ha detto di lui il critico Paolo Rizzi in occasione di una retrospettiva dei suoi dipinti tenuta dopo la sua morte ad alcuni suoi amici muranesi, nel tentativo di suscitare un discorso critico più profondo su un pittore ingiustamente dimenticato. Fu probabilmente questo momento di crisi esistenziale, con conseguente graduale disinteresse per il proprio lavoro, che lo portò a decidere di partire per l'Africa come volontario nel 1935. Durante il suo periodo africano trascorse tre mesi al Forte Galliano di Macallè, custodito dall'amico Aureliano Toso, all'epoca capitano d'artiglieria, dove poté successivamente godere dell'ampia libertà di movimento concessagli dai suoi superiori per le sue note capacità artistiche. Al termine delle ostilità decise di rimanere in Africa, spinto dalla curiosità per l'arte e la cultura locale, e continuò diligentemente a dipingere, nonostante la difficoltà di trovare nuove tele e colori adatti. I risultati furono esposti in una grande mostra personale ad Asmara, all'epoca capitale dell'Eritrea, nel maggio 1937, con ventisette opere, alcune di notevoli dimensioni, e tutte di persone, luoghi e mercati eritrei. Questo materiale, che doveva essere oggetto di una nuova mostra, è andato tutto perduto durante il viaggio di ritorno in Italia e di esso non resta altro che alcune fotografie. L'esperienza africana di Martens, però, cambierà profondamente la sua direzione artistica, non tanto nella pittura quanto nella produzione del vetro, fortemente influenzata dalle forme e dai colori dell'artigianato africano, come le trame dei tessuti africani, chiara fonte di ispirazione per i suoi Zanfirici. In effetti, utilizzerà nomi come Damasco, Algeri, Ailé e Congo per alcuni dei suoi vasi più famosi, un chiaro riferimento a un periodo della sua vita ricco di eventi emozionanti e ricco di creatività. Al ritorno in Italia, non torna subito a Murano, ma decide di rimanere a Roma, alternando la Scuola Vaticana del Mosaico e l'ambiente del cinema della neonata Cinecittà. Qui trovò lavoro come scenografo e decoratore e, grazie alla sua conoscenza diretta dell'Africa, fu incaricato di decorare le scene di un film importante, Abuna Messias. Diretto da Goffredo Alessandrini, racconta la missione in Abissinia guidata dal cardinale Guglielmo Massaia, noto agli indigeni come Abuna Messias. Il film ebbe un grande successo, vincendo il primo premio alla 7a Mostra del Cinema di Venezia nel 1939. Avendo concluso il suo lavoro a Roma, alla fine torna a Murano e inizia uno straordinario sodalizio vetraio con l'amico Aureliano Toso, che nel frattempo, di ritorno dall'Africa, aveva aperto una propria vetreria in Fondamenta Radi 25 con il nome di Vetreria Artistica rag. Aureliano Toso. Martens ne divenne il direttore artistico, carica che mantenne fino ai primi anni '60, affiancato da alcuni dei migliori maestri vetrai, capaci di realizzare i suoi pezzi più complicati, tra cui ALDO "POLO" BON, SILVANO SIMIONI e MARIO ZANETTI, con i quali ha stabilito quel tipo di perfetta affinità tra designer e maker indispensabile per la realizzazione di opere in vetro molto complesse. La prima Biennale di Venezia in cui si presentò fu la 21a, nel 1940, dove la vetreria Aureliano Toso espose un gruppo molto vario di sue creazioni eseguite con nuove tecniche, tra cui l'oggetto di spicco era una strana maschera in vetro "pulegoso". La produzione riprese lentamente nel secondo dopoguerra, quando molte vetrerie furono costrette a chiudere, ma la Biennale di Venezia, e soprattutto il Padiglione di Venezia, riaprirono solo nel 1948, quest'ultimo divenuto ormai un luogo dove i maggiori produttori di vetro di Murano poterono mostrare e confrontare le loro ultime creazioni. Da allora fino al 1962 Martens è sempre stato presente alle Biennali di Venezia e alle Triennali di Milano, ed ha esposto le sue opere non solo in Italia ma anche in prestigiose sedi all'estero. Seguirono alcuni dei momenti più importanti della storia espositiva dell'artista, pubblica e privata, nel corso degli anni Cinquanta. Nel 1953 la Bonniers Gallery di New York allestì una mostra con sedici designer italiani, tra cui Martens, e fu uno dei suoi vasi della serie Zanfirici che il grafico Michael De Leo utilizzò debitamente stilizzato per la copertina del depliant della mostra. L'Istituto Nazionale per il Commercio Estero tenne una mostra a Madrid nel 1955, i Vidrios y Cristales Italianos' per la quale la vetreria Aureliano Toso prese alcuni pezzi di Martens che erano già stati esposti nel 1952 alla Mostra del Cinquantenario durante la Biennale di quell'anno. Altro momento importante è stata la mostra tenuta dall'Istituto Veneto per il Lavoro al Röhsska Konstslöjdmuseet di Göteborg, Svezia, nel 1956. Presentava circa 180 pezzi provenienti da quattordici delle principali vetrerie di Murano ed era curata dal pittore VINICIO VIANELLO, che ne disegnò anche l'ambientazione. Martens vi espose alcuni dei suoi pezzi più fantasiosi in termini di forma e ricchezza di colori, come la brocca Concerto, in cui aveva sperimentato l'ennesimo uso del vetro Zanfirico. Nel 1958 si tenne una grande mostra del vetro di Murano, intitolata Venedig zeigt Glas aus Murano, al Museum für Angewandte Kunst di Vienna. In questa occasione l'artista presentò alcune forme più semplici e stilizzate accanto ai suoi famosi vasi Zanfirici, alcuni dei quali già esposti l'anno prima all'XI Triennale di Milano. Questi erano i vasi "a trina", molto allungati e con fini decorazioni a canne verticali che ne sottolineano le forme snelle e ne mostravano lo stile in evoluzione verso le nuove tendenze del design contemporaneo. Nel 1959 il Corning Museum of Glass di New York tenne una mostra speciale di vetri contemporanei internazionali sotto la guida di THOMAS S BRUCHNER, l'allora direttore del museo. In mostra 1.814 oggetti in vetro realizzati da 173 diverse vetrerie di ventitré paesi. Il comitato di selezione era composto da cinque notevoli esperti, LESLIE CHEEK (direttore del Virginia Museum of Fine Arts), EDGAR KAUFMANN JR (designer), RUSSELL LYNES (giornalista), GEORGE NAKASHIMA (designer) e GIO PONTI, figure di spicco del settore dell'arte, del design e architettura a livello internazionale. Il loro compito iniziale è stato quello di selezionare i 100 pezzi più interessanti e poi, di quei 100, ogni membro ha presentato tre oggetti che considerava i prodotti più eccezionali dell'intera mostra. Quindi una selezione finale di quindici oggetti tra cui uno splendido vaso disegnato da Dino Martens per la vetreria Aureliano Toso. Ecco i motivi alla base della scelta del giornalista americano RUSSELL LYNES del vaso Allegria di Dino Martens, della serie Zanfirici, e le sue parole, forse meglio di chiunque altro, riassumono l'essenza di questo pezzo. "Prendo prima la bottiglia veneziana (la bottiglia Allegria), colorata, di forma irregolare, forse (non ho provato ad usarla) ridicolmente inadatta a tutto tranne che alla decorazione. Conterrebbe dei fiori, sospetto, ma li travolgerebbe: i suoi colori sono troppo accesi, il suo disegno troppo alto e stretto al collo, e il suo motivo ornamentale troppo esigente di attenzione. Lo scelgo perché unisce la tradizionale allegria del vetro veneziano con una sensazione che è tutta del Novecento. E' carina (un aggettivo che ai nostri giorni i critici non usano più), ha dell'umorismo (fa venire voglia di sorridere) e sa chi è suo padre (e bisnonno)." Sitografia: Dino Martens - Glass and Drawings (Allemandi-Franco Deboni) Dino Martens - Pittore e designer (Museo del Vetro)

lunedì 17 aprile 2017

TRIESTE : TEATRO ROMANO

Il teatro romano di Trieste si trova ai piedi del colle di San Giusto, tra via Donota e via del Teatro Romano. Risalente alla fine del I secolo a.C. (ampliato sotto Traiano) è certamente la testimonianza più suggestiva dell'antica Tergeste. Si trova ai piedi del colle di San Giusto, tra via Donota e via del Teatro Romano. La sua costruzione viene datata tra la fine del I secolo e l'inizio del II secolo d.C., presumibilmente per volere del procuratore Quinto Petronio Modesto, sacerdote di Marco Ulpio Nerva Traiano (citato in diverse iscrizioni - secondo alcune fonti, ne curò solamente alcuni interventi di rinnovamento). All'epoca della sua costruzione, il teatro, utilizzato per spettacoli pubblici, perlopiù rappresentazioni teatrali, si trovava in riva al mare, che a quel tempo arrivava quasi a lambirlo (sono stati rinvenuti moli di attracco), e doveva offrire uno spettacolo davvero suggestivo. Le sue gradinate, costruite sfruttando la naturale pendenza del colle, ospitavano dai 3.500 ai 6.000 spettatori (le fonti discordano). Nell'antica Roma venne utilizzato a modello il teatro greco, al quale vennero apportate alcune modifiche. La struttura architettonica di questi teatri era fondata su murature radiali e concentriche spesso arricchite con marmi pregiati. I primi teatri furono certamente costruiti in legno, ed avevano carattere provvisorio, ma in età imperiale, dalla metà del I sec. d.C. vennero realizzati interamente in muratura. Il primo tra questi a noi pervenuto fu quello di Pompeo, del 55 a.C.. Le differenze fra i teatri romani e quelli greci: la struttura del teatro greco utilizzava colline naturali, quelli romani erano costruiti in piano, con un palcoscenico più ampio rispetto a quello greco. Il teatro romano aveva funzione di svago, il teatro greco contribuiva all'istruzione e alla formazione morale dei cittadini. Il teatro romano era costruito in piano e non su un declivio naturale come quello greco, ed ha una forma chiusa, che non consentiva la copertura con un velarium, utilizzato per riparare gli spettatori dal sole. Le gradinate semicircolari della cavea sono collegate alla scena con loggiati laterali poggianti su archi e volte realizzati in muratura. La facciata della scena era a numerosi piani e decorata a rappresentare vie, piazze o un paesaggio, prismi triangolari rotabili con i lati dipinti con una scena tragica su un lato, comica su un altro e satiresca sul terzo. La facciata esterna era ornata e resa monumentale da statue. L'auditorium, l'area in cui erano collocati i posti a sedere talvolta utilizzava una piccola collina o pendio, nella tradizione dei teatri greci, come nel teatro di Trieste, dove si rese necessario un sostegno strutturale e muri di contenimento. Con il trascorrere dei secoli, in stato di totale abbandono, il teatro triestino venne ricoperto da edificazioni abitative. Dimenticato, venne individuato soltanto nel 1814 dall'architetto Pietro Nobile, e riportato alla luce nel 1938, durante le opere di demolizione della città vecchia. Le statue e le iscrizioni rinvenute durante gli scavi sono conservate presso il Lapidario Tergestino al Castello di san Giusto. Saltuariamente è stato anche utilizzato per spettacoli estivi all'aperto. Così lo descrive Attilio Tamaro nel primo volume della sua "Storia di Trieste":"Un vero monumento si profilerà un giorno nel cielo triestino, risorgendo dalla sconcia e disonorante sepoltura, in cui giace coperto da un agglomerato di case, di catapecchie e di lupanari, tra le vie di Pozzàcchera, di Rena, di Donota e di Riborgo, nella città vecchia. È la vasta rovina del teatro romano, di cui sotto le case sono conservati interi piani, gran parte della platea, frammenti di gradinate, due ordini di corridoi o gallerie sovrapposti l’uno all’altro. Tra via di Pozzàcchera e quella di Rena (da arena?), arcuate come sono, seguono ancora la curva delle gallerie sepolte. Il Generini afferma che sin verso il 1850 in Pozzàcchera si vedeva un pezzo della cinta del teatro, alto, disposto a curva, il quale continuava nell’interno delle case e terminava a Riborgo. Si vede ancora che una parte delle mura, nel medioevo, fu fondata sulle rovine del teatro. Una casa al principio di via Pozzàcchera è costruita sopra porzione del teatro stesso. Un corridoio sotterraneo metteva capo, or non è molto, in androna del Buso e un frammento di gradinata si vedeva in androna degli Scalini. Il diametro del teatro, la cui topografia è facilmente visibile nella sua totalità, misura circa sessanta metri. Ireneo della Croce, dopo aver descritto quanto si vedeva delle rovine ai suoi tempi, diede un’immagine di queste in un rame della sua opera e ricordò i risultati di alcuni scavi operati nell’orto Chicchio e alla casa Garzaroli, sulla linea di fronte del teatro, lungo la via Riborgo. Un ’iscrizione, di cui esistettero due esemplari, uno in Riborgo e l’altro sulla parte posteriore del teatro, porta il nome di Quinto Petronio Modesto, triestino, ufficiale del tempo di Nerva e di Traiano: gli si attribuì, di fantasia, la costruzione del teatro. La città deve aver posseduto anche un anfiteatro, poiché esiste un’iscrizione triestina che rammenta i giochi gladiatori." Interessante anche la descrizione resa da Carlo Curiel: "I ruderi dell’antico Teatro romano, oggi sepolti dalle casupole delle vie di Pozzacchera, di Rena, di Donota, di Riborgo, dànno un’idea della sua vastità : Pietro Nobile ne valutava il diametro a 57 metri e calcolava che potesse contenere circa 6000 persone, ciò che permette di concludere che non intervenivano solo i cittadini, ma anche gli abitanti dei paesi vicini. Impropriamente, il teatro fu chiamato più tardi Arena ed il quartiere ne prese il nome, con aferesi veneta, di Rena, ma sembra fosse più adatto alle rappresentazioni sceniche, che ai ludi gladiatori. Caduto in rovina il Teatro romano, si dice sorgesse durante il Medioevo un’arena, dove si rappresentavano i misteri: ma le tradizioni sono incerte e dubbiose." L’area retrostante via del Teatro romano, che comprende via Donota, via Battaglia, via del Crocefisso, via del Seminario, oltre ad essere nota per il rinvenimento del Teatro e degli edifici di destinazione sepolcrale e funeraria, è stata oggetto di numerose campagne di scavo tra il 1982-1987, in conseguenza degli interventi di emergenza e manutenzione fognaria. Varia la tipologia sia dei manufatti sia delle sepolture rinvenute, queste ultime ricoperte da lastroni di reimpiego, da mattoni, da coppi, in anfore o in contenitori di fortuna. Di rilievo, inoltre, la documentazione epigrafica. In via del Seminario è ora visibile una porzione delle antiche mura costituite da blocchetti di arenaria, alla cui base si trova un canale per il deflusso delle acque provenienti dal fianco del colle. Scendendo di un centinaio di metri via del Seminario, in via di Donota troviamo l’Antiquarium, costituito da una zona archeologica e da una espositiva, con reperti provenienti dagli scavi di recupero edilizio, iniziati negli anni '80. Durante gli scavi sono venuti alla luce i resti di un edificio con gli interni in intonaco affrescato e decorazioni in stucco, risalente al primo secolo d.C. Probabilmente si trattava di un nucleo abitativo, realizzato su piani diversi sfruttando il declivio della collina. Dal IV° al VI° secolo l’area venne utilizzata per la tumulazione in anfore, a cassa e a fossa. Durante il periodo medievale la zona venne ricoperta dalle mura cittadine. (g.c.)

TRIESTE : TEATRO ROMANO

Teatro Romano Il teatro romano di Trieste si trova ai piedi del colle di San Giusto, tra via Donota e via del Teatro Romano. Risalente alla fine del I secolo a.C. (ampliato sotto Traiano) è certamente la testimonianza più suggestiva dell'antica Tergeste. Si trova ai piedi del colle di San Giusto, tra via Donota e via del Teatro Romano. La sua costruzione viene datata tra la fine del I secolo e l'inizio del II secolo d.C., presumibilmente per volere del procuratore Quinto Petronio Modesto, sacerdote di Marco Ulpio Nerva Traiano (citato in diverse iscrizioni - secondo alcune fonti, ne curò solamente alcuni interventi di rinnovamento). All'epoca della sua costruzione, il teatro, utilizzato per spettacoli pubblici, perlopiù rappresentazioni teatrali, si trovava in riva al mare, che a quel tempo arrivava quasi a lambirlo (sono stati rinvenuti moli di attracco), e doveva offrire uno spettacolo davvero suggestivo. Le sue gradinate, costruite sfruttando la naturale pendenza del colle, ospitavano dai 3.500 ai 6.000 spettatori (le fonti discordano). Nell'antica Roma venne utilizzato a modello il teatro greco, al quale vennero apportate alcune modifiche. La struttura architettonica di questi teatri era fondata su murature radiali e concentriche spesso arricchite con marmi pregiati. I primi teatri furono certamente costruiti in legno, ed avevano carattere provvisorio, ma in età imperiale, dalla metà del I sec. d.C. vennero realizzati interamente in muratura. Il primo tra questi a noi pervenuto fu quello di Pompeo, del 55 a.C.. Le differenze fra i teatri romani e quelli greci: la struttura del teatro greco utilizzava colline naturali, quelli romani erano costruiti in piano, con un palcoscenico più ampio rispetto a quello greco. Il teatro romano aveva funzione di svago, il teatro greco contribuiva all'istruzione e alla formazione morale dei cittadini. Il teatro romano era costruito in piano e non su un declivio naturale come quello greco, ed ha una forma chiusa, che non consentiva la copertura con un velarium, utilizzato per riparare gli spettatori dal sole. Le gradinate semicircolari della cavea sono collegate alla scena con loggiati laterali poggianti su archi e volte realizzati in muratura. La facciata della scena era a numerosi piani e decorata a rappresentare vie, piazze o un paesaggio, prismi triangolari rotabili con i lati dipinti con una scena tragica su un lato, comica su un altro e satiresca sul terzo. La facciata esterna era ornata e resa monumentale da statue. L'auditorium, l'area in cui erano collocati i posti a sedere talvolta utilizzava una piccola collina o pendio, nella tradizione dei teatri greci, come nel teatro di Trieste, dove si rese necessario un sostegno strutturale e muri di contenimento. Con il trascorrere dei secoli, in stato di totale abbandono, il teatro triestino venne ricoperto da edificazioni abitative. Dimenticato, venne individuato soltanto nel 1814 dall'architetto Pietro Nobile, e riportato alla luce nel 1938, durante le opere di demolizione della città vecchia. Le statue e le iscrizioni rinvenute durante gli scavi sono conservate presso il Lapidario Tergestino al Castello di san Giusto. Saltuariamente è stato anche utilizzato per spettacoli estivi all'aperto. Così lo descrive Attilio Tamaro nel primo volume della sua "Storia di Trieste":"Un vero monumento si profilerà un giorno nel cielo triestino, risorgendo dalla sconcia e disonorante sepoltura, in cui giace coperto da un agglomerato di case, di catapecchie e di lupanari, tra le vie di Pozzàcchera, di Rena, di Donota e di Riborgo, nella città vecchia. È la vasta rovina del teatro romano, di cui sotto le case sono conservati interi piani, gran parte della platea, frammenti di gradinate, due ordini di corridoi o gallerie sovrapposti l’uno all’altro. Tra via di Pozzàcchera e quella di Rena (da arena?), arcuate come sono, seguono ancora la curva delle gallerie sepolte. Il Generini afferma che sin verso il 1850 in Pozzàcchera si vedeva un pezzo della cinta del teatro, alto, disposto a curva, il quale continuava nell’interno delle case e terminava a Riborgo. Si vede ancora che una parte delle mura, nel medioevo, fu fondata sulle rovine del teatro. Una casa al principio di via Pozzàcchera è costruita sopra porzione del teatro stesso. Un corridoio sotterraneo metteva capo, or non è molto, in androna del Buso e un frammento di gradinata si vedeva in androna degli Scalini. Il diametro del teatro, la cui topografia è facilmente visibile nella sua totalità, misura circa sessanta metri. Ireneo della Croce, dopo aver descritto quanto si vedeva delle rovine ai suoi tempi, diede un’immagine di queste in un rame della sua opera e ricordò i risultati di alcuni scavi operati nell’orto Chicchio e alla casa Garzaroli, sulla linea di fronte del teatro, lungo la via Riborgo. Un ’iscrizione, di cui esistettero due esemplari, uno in Riborgo e l’altro sulla parte posteriore del teatro, porta il nome di Quinto Petronio Modesto, triestino, ufficiale del tempo di Nerva e di Traiano: gli si attribuì, di fantasia, la costruzione del teatro. La città deve aver posseduto anche un anfiteatro, poiché esiste un’iscrizione triestina che rammenta i giochi gladiatori." Interessante anche la descrizione resa da Carlo Curiel: "I ruderi dell’antico Teatro romano, oggi sepolti dalle casupole delle vie di Pozzacchera, di Rena, di Donota, di Riborgo, dànno un’idea della sua vastità : Pietro Nobile ne valutava il diametro a 57 metri e calcolava che potesse contenere circa 6000 persone, ciò che permette di concludere che non intervenivano solo i cittadini, ma anche gli abitanti dei paesi vicini. Impropriamente, il teatro fu chiamato più tardi Arena ed il quartiere ne prese il nome, con aferesi veneta, di Rena, ma sembra fosse più adatto alle rappresentazioni sceniche, che ai ludi gladiatori. Caduto in rovina il Teatro romano, si dice sorgesse durante il Medioevo un’arena, dove si rappresentavano i misteri: ma le tradizioni sono incerte e dubbiose." L’area retrostante via del Teatro romano, che comprende via Donota, via Battaglia, via del Crocefisso, via del Seminario, oltre ad essere nota per il rinvenimento del Teatro e degli edifici di destinazione sepolcrale e funeraria, è stata oggetto di numerose campagne di scavo tra il 1982-1987, in conseguenza degli interventi di emergenza e manutenzione fognaria. Varia la tipologia sia dei manufatti sia delle sepolture rinvenute, queste ultime ricoperte da lastroni di reimpiego, da mattoni, da coppi, in anfore o in contenitori di fortuna. Di rilievo, inoltre, la documentazione epigrafica. In via del Seminario è ora visibile una porzione delle antiche mura costituite da blocchetti di arenaria, alla cui base si trova un canale per il deflusso delle acque provenienti dal fianco del colle. Scendendo di un centinaio di metri via del Seminario, in via di Donota troviamo l’Antiquarium, costituito da una zona archeologica e da una espositiva, con reperti provenienti dagli scavi di recupero edilizio, iniziati negli anni '80. Durante gli scavi sono venuti alla luce i resti di un edificio con gli interni in intonaco affrescato e decorazioni in stucco, risalente al primo secolo d.C. Probabilmente si trattava di un nucleo abitativo, realizzato su piani diversi sfruttando il declivio della collina. Dal IV° al VI° secolo l’area venne utilizzata per la tumulazione in anfore, a cassa e a fossa. Durante il periodo medievale la zona venne ricoperta dalle mura cittadine. (g.c.)
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TRIESTE : CHIESA DI SAN NICOLO' DEI GRECI

Chiesa di San Nicolò dei Greci
Nel 1750-51 con sovrana risoluzione l'imperatrice Maria Teresa concesse alla "nazione greca" di praticare il proprio culto in una chiesa per il loro rito. La parola Nazione greca allora aveva significato esclusivamente religioso ed indicava i fedeli della confessione cristiana ortodossa. La chiesa che venne costruita fu la prima chiesa di san Spiridione, ora sostituita da una successiva. Nel 1781 le due comunità linguistiche greca e serba, per divergenza sulla lingua d'uso nei riti, si divisero, ed i Greci iniziarono a ritrovarsi in casa Andrulachi, uno dei membri della Comunità. Grazie all'editto di tolleranza di Giuseppe II ottennero di potersi costruire una nuova chiesa, inaugurata nel 1787: chiesa provvisoria, che appena nel 1818 venne conclusa in forme neoclassiche ad opera dell'architetto Matteo Pertsch. La nuova chiesa, dedicata alla Trinità e a san Nicolò, è ad una navata, con banchi laterali sopraelevati e una per coro e gineceo. Grandiosa l'iconostasi di fondo con le tre porte che si aprono verso il bema (altare) o presbiterio, utilizzato dal sacerdote durante i riti. I grandi lampadari d'argento sono di provenienza russa, metà Ottocento, gli affreschi in parte di autore sconosciuto, in parte della scuola di Trigonis, pittore greco stabilitosi a Trieste nella prima metà dell'Ottocento. Presenti due pale di Cesare Dell'Acqua, Gesù fra i bambini e San Giovanni Battista. L'arredamento liturgico comprende diverse icone, alcune esposte in chiesa, altre nell'annesso museo della comunità, un Epitafios, rappresentazione del S. Sepolcro, di bottega triestina della fine del Settecento, due "exapteryga" dischi d'argento con i Cherubini a 6 ali. Le principali funzioni a cui partecipano spesso anche membri di altre Comunità religiose triestine sono Pasqua e Natale, l'Epifania con il memoriale del Battesimo di Cristo e la benedizione delle acque, il solenne Vespro della Vigilia di san Nicolò, la processione dell'Epitafios il venerdì santo e la festa nazionale greca. (Elisabetta Marcovich)
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TRIESTE : CHIESA DI SAN NICOLO' DEI GRECI

Chiesa di San Nicolò dei Greci
Nel 1750-51 con sovrana risoluzione l'imperatrice Maria Teresa concesse alla "nazione greca" di praticare il proprio culto in una chiesa per il loro rito. La parola Nazione greca allora aveva significato esclusivamente religioso ed indicava i fedeli della confessione cristiana ortodossa. La chiesa che venne costruita fu la prima chiesa di san Spiridione, ora sostituita da una successiva. Nel 1781 le due comunità linguistiche greca e serba, per divergenza sulla lingua d'uso nei riti, si divisero, ed i Greci iniziarono a ritrovarsi in casa Andrulachi, uno dei membri della Comunità. Grazie all'editto di tolleranza di Giuseppe II ottennero di potersi costruire una nuova chiesa, inaugurata nel 1787: chiesa provvisoria, che appena nel 1818 venne conclusa in forme neoclassiche ad opera dell'architetto Matteo Pertsch. La nuova chiesa, dedicata alla Trinità e a san Nicolò, è ad una navata, con banchi laterali sopraelevati e una per coro e gineceo. Grandiosa l'iconostasi di fondo con le tre porte che si aprono verso il bema (altare) o presbiterio, utilizzato dal sacerdote durante i riti. I grandi lampadari d'argento sono di provenienza russa, metà Ottocento, gli affreschi in parte di autore sconosciuto, in parte della scuola di Trigonis, pittore greco stabilitosi a Trieste nella prima metà dell'Ottocento. Presenti due pale di Cesare Dell'Acqua, Gesù fra i bambini e San Giovanni Battista. L'arredamento liturgico comprende diverse icone, alcune esposte in chiesa, altre nell'annesso museo della comunità, un Epitafios, rappresentazione del S. Sepolcro, di bottega triestina della fine del Settecento, due "exapteryga" dischi d'argento con i Cherubini a 6 ali. Le principali funzioni a cui partecipano spesso anche membri di altre Comunità religiose triestine sono Pasqua e Natale, l'Epifania con il memoriale del Battesimo di Cristo e la benedizione delle acque, il solenne Vespro della Vigilia di san Nicolò, la processione dell'Epitafios il venerdì santo e la festa nazionale greca. (Elisabetta Marcovich)
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TRIESTE : CHIESA DI SAN GIACOMO APOSTOLO

Trieste : San Giacomo, Chiesa di San Giacomo Apostolo
Stile eclettico con riferimenti lombardeschi e bizantini. Pianta basilicale a tre navate, separate da dodici colonne e quattro semicolonne a sezione ottagonale sormontate da capitelli a fogliami di stucco bianco. La chiesa ospita quatto altari tutti progettati dall’architetto Giuseppe Sforzi ed eseguiti dallo scalpellino Pietro Palese; gli altri, compreso l’altare maggiore, vennero realizzati da Giovanni Antonio Dorigo. L’abside è decorato da un affresco a finto mosaico eseguito dai pittori Luigi Castro e Giovanni Zucco rappresentante la Beata Vergine, San Giacomo e San Servolo, i tre santi contitolari della chiesa. Questo affresco è l’unico superstite di un gruppo di tre interessati dai lavori di restauro della chiesa nel 1954-55. Gli altri due affreschi laterali, opere di Pompeo Randi e commissionati dal parroco Mattia Dubrovich, raffiguravano la Trasfigurazione di Gesù e l’Ascensione al Cielo. L’altare della navata di sinistra fu eseguita da P. Palese ed è dedicato a S. Rocco mentre all’interno del coro si nota un quadro raffigurante la Beata Vergine della Salute donato da Pietro Kandler e collocato originariamente nella Cappella Rossetti in via Nuova (poi Mazzini); la navata laterale destra presenta due altari, uno dedicato alla Madonna del Rosario, sovrastata da una pala di Edoardo de Heinrich raffigurante la Vergine col Bambino, Sant’Antonio Taumaturgo e San Vincenzo Ferreri; l’altro altare è dedicato a San Nicolò e la pala rappresentante il Santo è uno dei dipinti dì maggior interesse della chiesa. Fu eseguita dal pittore viennese Johann Till senior (1800-1889). Il dipinto venne donato dall’arciduca Ferdinando Massimiliano nel 1855 quando era comandante della flotta austriaca a Trieste. Raffigura il Santo vescovo di Mira in atto di impetrare dalla Beata Vergine la salvezza di alcuni marinai la cui nave sta naufragando nel mare in tempesta. Nella chiesa di San Giacomo sono conservate altre interessanti opere come, ad esempio, un busto della Madonna in marmo di Carrara dello scultore Francesco Bosa e una “via crucis”. C’è ancora una serie di 14 quadri raffiguranti santi del pittore triestino Giovanni Luigi Rose e già facenti parte di un gruppo di 17 quadretti. Quindici di questi (uno è oggi perduto, due sono relativamente recenti) erano nelle nicchie dei paliotti marmorei appartenenti ai tre altari laterali; altri due stavano invece sopra un quarto altare posto nella navata di sinistra e ora demolito. Proveniva dalla chiesa di S.M. Maggiore e venne donato alla chiesa di San Giacomo da Giovanni Battista Silverio, recava una pala opera di Natale Schiavoni rappresentante Gesù nell’orto che tuttora si conserva. Venne trasferito nella chiesa di San Giacomo allorché, nel 1853, Pasquale Revoltella fece erigere un nuovo altare nella navata destra dell’ex chiesa dei Gesui ti, di S. M. Maggiore. Nel 1848 venne autorizzato l’acquisto del terreno delle autorità municipali, allora Podestà Muzio de Tommasini. Il progetto venne affidato all’architetto e ingegnere comunale Giuseppe Sforzi (1801-1883), all’epoca molto attivo con la costruzione di numerosi edifici cittadini. L’edificazione iniziò il 1849 ad opera del costruttore Innocenzo Turrini. Negli scavi per la realizzazione delle fondamenta emersero numerosi reperti romani. La pietra memoriale venne benedetta e sotterrata solennemente il 27 luglio 1851, sul posto dove nell’area doveva essere eretto l’altare maggiore, a lavori molto avanzati. La notte del 22 febbraio 1852, una forte Bora fece crollare le impalcature e creò forti danni a tutto il cantiere. Si studiarono nuove soluzioni tecniche; vennero rinforzate le navate laterali e costruiti degli archivolti rinforzati con spranghe di ferro che collegarono le colonne ai muri laterali. I lavori si conclusero nel 1854 e venne consacrata il 25 luglio 1854 dal vescovo Bartolomeo Legat e dedicata alla Beata Vergine, a San Giacomo e a San Servolo. L’intitolazione a San Giacomo voleva ricordare una cappella esistente in zona, di proprietà della famiglia Giuliani , allora dedicata ai Santi Rocco e Giacomo. Custodisce pregevoli opere d’arte. Importanti lavori di restauro sono stati eseguiti nel 1954/1955 per il centenario della chiesa e nel maggio 2004, per i suoi centocinquant’anni. “San Giacomo” (Jacopo o Iacopo Betsaida) di Zebedeo, detto anche Giacomo il «Maggiore», secondo quanto riportato nel Nuovo Testamento fu uno dei dodici apostoli di Gesù. Viene chiamato il «Maggiore» per distinguerlo dall’apostolo omonimo, Giacomo di Alfeo detto «Minore». Figlio di Zebedeo e di Salome, era il fratello dell’apostolo Giovanni. Giacomo fu uno dei tre apostoli che assistettero alla trasfigurazione di Gesù. Dopo la morte di Cristo, Giacomo assunse un ruolo di spicco nella comunità cristiana di Gerusalemme e si narra di un improbabile viaggio in Spagna al fine di diffondere il Vangelo. Secondo gli Atti degli Apostoli fu messo a morte dal re Erode Agrippa attorno all’anno 44. (g.c.)
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Stile eclettico con riferimenti lombardeschi e bizantini. Pianta basilicale a tre navate, separate da dodici colonne e quattro semicolonne a sezione ottagonale sormontate da capitelli a fogliami di stucco bianco. La chiesa ospita quatto altari tutti progettati dall’architetto Giuseppe Sforzi ed eseguiti dallo scalpellino Pietro Palese; gli altri, compreso l’altare maggiore, vennero realizzati da Giovanni Antonio Dorigo. L’abside è decorato da un affresco a finto mosaico eseguito dai pittori Luigi Castro e Giovanni Zucco rappresentante la Beata Vergine, San Giacomo e San Servolo, i tre santi contitolari della chiesa. Questo affresco è l’unico superstite di un gruppo di tre interessati dai lavori di restauro della chiesa nel 1954-55. Gli altri due affreschi laterali, opere di Pompeo Randi e commissionati dal parroco Mattia Dubrovich, raffiguravano la Trasfigurazione di Gesù e l’Ascensione al Cielo. L’altare della navata di sinistra fu eseguita da P. Palese ed è dedicato a S. Rocco mentre all’interno del coro si nota un quadro raffigurante la Beata Vergine della Salute donato da Pietro Kandler e collocato originariamente nella Cappella Rossetti in via Nuova (poi Mazzini); la navata laterale destra presenta due altari, uno dedicato alla Madonna del Rosario, sovrastata da una pala di Edoardo de Heinrich raffigurante la Vergine col Bambino, Sant’Antonio Taumaturgo e San Vincenzo Ferreri; l’altro altare è dedicato a San Nicolò e la pala rappresentante il Santo è uno dei dipinti dì maggior interesse della chiesa. Fu eseguita dal pittore viennese Johann Till senior (1800-1889). Il dipinto venne donato dall’arciduca Ferdinando Massimiliano nel 1855 quando era comandante della flotta austriaca a Trieste. Raffigura il Santo vescovo di Mira in atto di impetrare dalla Beata Vergine la salvezza di alcuni marinai la cui nave sta naufragando nel mare in tempesta. Nella chiesa di San Giacomo sono conservate altre interessanti opere come, ad esempio, un busto della Madonna in marmo di Carrara dello scultore Francesco Bosa e una “via crucis”. C’è ancora una serie di 14 quadri raffiguranti santi del pittore triestino Giovanni Luigi Rose e già facenti parte di un gruppo di 17 quadretti. Quindici di questi (uno è oggi perduto, due sono relativamente recenti) erano nelle nicchie dei paliotti marmorei appartenenti ai tre altari laterali; altri due stavano invece sopra un quarto altare posto nella navata di sinistra e ora demolito. Proveniva dalla chiesa di S.M. Maggiore e venne donato alla chiesa di San Giacomo da Giovanni Battista Silverio, recava una pala opera di Natale Schiavoni rappresentante Gesù nell’orto che tuttora si conserva. Venne trasferito nella chiesa di San Giacomo allorché, nel 1853, Pasquale Revoltella fece erigere un nuovo altare nella navata destra dell’ex chiesa dei Gesui ti, di S. M. Maggiore. Nel 1848 venne autorizzato l’acquisto del terreno delle autorità municipali, allora Podestà Muzio de Tommasini. Il progetto venne affidato all’architetto e ingegnere comunale Giuseppe Sforzi (1801-1883), all’epoca molto attivo con la costruzione di numerosi edifici cittadini. L’edificazione iniziò il 1849 ad opera del costruttore Innocenzo Turrini. Negli scavi per la realizzazione delle fondamenta emersero numerosi reperti romani. La pietra memoriale venne benedetta e sotterrata solennemente il 27 luglio 1851, sul posto dove nell’area doveva essere eretto l’altare maggiore, a lavori molto avanzati. La notte del 22 febbraio 1852, una forte Bora fece crollare le impalcature e creò forti danni a tutto il cantiere. Si studiarono nuove soluzioni tecniche; vennero rinforzate le navate laterali e costruiti degli archivolti rinforzati con spranghe di ferro che collegarono le colonne ai muri laterali. I lavori si conclusero nel 1854 e venne consacrata il 25 luglio 1854 dal vescovo Bartolomeo Legat e dedicata alla Beata Vergine, a San Giacomo e a San Servolo. L’intitolazione a San Giacomo voleva ricordare una cappella esistente in zona, di proprietà della famiglia Giuliani , allora dedicata ai Santi Rocco e Giacomo. Custodisce pregevoli opere d’arte. Importanti lavori di restauro sono stati eseguiti nel 1954/1955 per il centenario della chiesa e nel maggio 2004, per i suoi centocinquant’anni. “San Giacomo” (Jacopo o Iacopo Betsaida) di Zebedeo, detto anche Giacomo il «Maggiore», secondo quanto riportato nel Nuovo Testamento fu uno dei dodici apostoli di Gesù. Viene chiamato il «Maggiore» per distinguerlo dall’apostolo omonimo, Giacomo di Alfeo detto «Minore». Figlio di Zebedeo e di Salome, era il fratello dell’apostolo Giovanni. Giacomo fu uno dei tre apostoli che assistettero alla trasfigurazione di Gesù. Dopo la morte di Cristo, Giacomo assunse un ruolo di spicco nella comunità cristiana di Gerusalemme e si narra di un improbabile viaggio in Spagna al fine di diffondere il Vangelo. Secondo gli Atti degli Apostoli fu messo a morte dal re Erode Agrippa attorno all’anno 44. (g.c.)
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